Marco Crispano – “Via da qui”
Testo a cura di Domenico De Chirico
Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara, Italia
Odeporica per vocazione, la mostra personale di Marco Crispano, “Via da qui”, si configura come un’intensa riflessione visiva sull’intersezione tra memoria personale ed esperienza collettiva. L’artista invita lo spettatore a intraprendere, attraverso il potenziale cromatico, un viaggio emotivo e intellettuale che oscilla tra passato e presente, tra il noto e l’ignoto, tra la profondità della conoscenza e la vastità della scoperta, dove la pittura si fa atto di indagine e reinterpretazione.
L’uso del termine odeporico richiama, in particolare, l’idea di odissea: un viaggio che non è solo geografico, ma anche interiore, ovvero un’esplorazione della condizione umana e dell’evoluzione culturale che la accompagna. In questo contesto, la mostra non si limita a proporre un percorso visivo, ma stimola una riflessione su temi quali la lontananza, la prossimità, la memoria e l’identità. L’esperienza si trasforma così in un continuo divenire, in cui il paesaggio emotivo rappresentato in pittura invita a intraprendere una profonda ricerca di sé e del mondo.
Al centro della sua pratica artistica c’è la fusione euritmica tra figurazione e astrazione, un processo che intreccia la mappatura geografica con i ricordi più intimi. Qui, le forme architettoniche, osservate dall’alto, si sovrappongono a topografie emotive, e ogni serie di dipinti si fa riflessione su come lo spazio e gli eventi, reali o immaginari, plasmino la percezione dell’identità e del senso di appartenenza.
In riferimento all’idea di Henri Bergson di superare il dualismo tra psiche e corpo, teorizzata nella sua opera “L’evoluzione creatrice” (1907), secondo cui «la memoria non è la facoltà di disporre dei ricordi in un cassetto o di iscriverli in un registro. Non esiste né registro né cassetto, e nemmeno potremmo dire che esista una facoltà, poiché una facoltà agisce in maniera discontinua, quando vuole o quando può, mentre lo stratificarsi del passato sul passato procede ininterrottamente. Non v’è dubbio: esso ci segue, intero, istante per istante; tutto ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto fin dalla nostra prima infanzia è qui proteso sul presente che sta per integrarsi in esso, e urta contro la porta della coscienza», allo stesso modo le opere di Crispano cercano, per quanto possibile, di raccogliere e rielaborare il caos emotivo e intellettuale, trasformandolo in un linguaggio pittorico originale che invita lo spettatore a rinnovare continuamente la propria volontà di comprensione del mondo.
Pertanto, le opere di Marco Crispano non si limitano a rappresentare, ma evocano e riconfigurano paesaggi emotivi che, attraverso il ricordo e la loro esteriore strutturazione, diventano quasi visibili. In questo processo, l’assenza di un soggetto chiaro diventa un inoppugnabile punto di forza: l’artista ritrae luoghi apparentemente silenti e abbandonati, dove proprio l’assenza stessa rivela una presenza ancora più potente. Le sue tele, attraversate da segni ripetuti ma mai identici, si interrogano su ciò che nel processo del ricordo permane, si trasforma o addirittura si perde. Mediante un approccio ispirato all’astrazione cartografica, l’artista ci guida nell’esplorazione della tensione che, ab illo tempore, intercorre tra il guizzo apolide e la staticità dell’appartenenza.
Il paesaggio che ne consegue, sia fisico sia mentale, è frammentato, dissolto e riassemblato, in un continuo gioco di disorientamento. Ogni composizione è un atto di mappatura e al contempo di smarrimento, come una rotta che cerca di ritrovare se stessa in un contesto che muta incessantemente e con grande rapidità. Il processo pittorico diventa, così, un mezzo per mettere in discussione la permanenza delle coordinate geografiche ed emotive, al fine di dubitare della stabilità di ciò che finora si credeva potesse essere immutabile.
Crispano lavora per stratificazione, sovrapponendo tracce visive che raccontano storie in divenire, mai definitive, vissute esclusivamente in prima persona. Dagli abissi del caos primordiale, le sue tele emergono alla ricerca di un ordine nascosto, nel tentativo di narrare l’instabilità che permea luoghi ed emozioni. Il suo lavoro si fa carico della tensione tra caos e costruzione, tra istinto e coscienza, invitando ciascuno di noi a esplorare le molteplici sfaccettature del proprio sé. Pertanto, la sua indagine pittorica non è mai un punto d’arrivo, bensì un processo continuo, in cui ogni opera si configura come frammento di un febbrile viaggio interiore.
In termini pratici, le campiture di colore si stratificano e si intrecciano in composizioni che oscillano, per l’appunto, tra astrazione e figurazione. La tavolozza cromatica si dispiega con disinvoltura tra tonalità calde, che sembrano emergere dalla terra, e tonalità fredde, simili a riflessi sui tetti, sotto cieli ora cerulei, ora velati, alternandosi tra zone d’ombra particolarmente cupe e altre ariosamente limpide. I contorni dei compartimenti, appena accennati, sembrano emergere per poi dissolversi improvvisamente, lasciando intuire presenze paesaggistiche che non si rivelano quasi mai completamente. Il paesaggio non è rappresentato, ma evocato: è uno spazio liminale – insieme mentale, fragile e mobile – in cui la materia pittorica diventa il luogo della percezione. I colori, stesi con apparente semplicità, costruiscono una geografia interconnessa, dove ogni forma è insieme superficie e profondità, segno e suggerimento. L’immagine resta aperta, sospesa, come un ricordo che sfuma progressivamente o come un orizzonte simbolico.
Questo proscenio immaginifico, realizzato attraverso una pittura che utilizza una varietà di materiali (acrilico, olio, vernice industriale, vernice per muri, spray), esplora, inoltre, l’esistenza dell’uomo nella società contemporanea, rappresentando la perdita di identità in una realtà segnatamente tecnologica e globalizzata. Il suo lavoro si configura come una critica alla società odierna, quella in cui lo spettacolo costituisce “la principale produzione della società attuale”, come teorizzato da Guy Debord nel suo saggio del 1967 “La società dello spettacolo”, dove gli esseri umani appaiono come consumatori ormai privi di intimità e dignità. I soggetti trattati esprimono una forte incomunicabilità, riflettendo una categorica assenza umana, all’interno di un universo carico di energie represse. Tuttavia, nonostante tutto, Crispano cerca di trovare un’armonia nelle sue immagini, concentrandosi sulla complessità cromatica, vivida e reale.
In questo lungo viaggio di auto-esplorazione che caratterizza la mostra “Via da qui”, egli non cerca propriamente l’armonia, bensì la tensione che sussiste e persiste tra il visibile e l’invisibile, tra l’ordine e il disordine. Ogni inquadratura, nonostante la sua forza visiva, resta sospesa tra significato e significante, tra ciò che emerge e ciò che rimane celato. Con il suo lavoro, Marco Crispano ci invita nuovamente a intraprendere un crocevia senza una meta definitiva, dove ogni opera rappresenta un passo in avanti, ma anche una costante tensione verso un centro che non si raggiunge mai, se non nel momento in cui l’immagine trova, finalmente, la sua forma compiuta.
In definitiva, “Via da qui” non è solo una mostra di pittura, ma un’esperienza che, prima di essere visiva, è innanzitutto sensoriale, vitale e filosofica. Al di là della provenienza e della destinazione, senza mai trascurare lo stato di permanenza, essa ci invita a riflettere, alla luce della consapevolezza dell’oggi, sul nostro rapporto con il passato, con i luoghi, con l’emotività e con l’inconscio. Ogni tela diventa così, grazie al potenziale prismatico del flusso di coscienza, un varco verso l’autoaffermazione, conducendoci con determinazione verso il nostro io più profondo, eppure ancora incompiuto.
In fondo, come scriveva Marcel Proust: «il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi», affinché si possa riflettere con maggiore consapevolezza su ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, nella speranza di riscoprire la realtà sotto una luce inedita e via via sempre più profonda.
Domenico de Chirico
Milano, 28 Aprile 2025